“Delitto al Caffè Pedrocchi”, la recensione

Come il precedente “Il maestro vetraio”, anche “Delitto al Caffè Pedrocchi”, terza fatica letteraria di Alberto Raffaelli (il libro d’esordio era stato “L’Osteria senza Oste”) fa ruotare la narrazione intorno a un suo correlato oggettivo. Che se nel precedente romanzo era una vetrata, nelle cui trasparenze lèggere il senso definitivo degli eventi quotidiani, anche quelli più periferici quando non squallidi, in “Delitto al Caffè Pedrocchi” è un gioco, un rebus, inviato da un mittente sconosciuto a tre persone molto diverse tra loro, e che emerge man mano come perno intorno al quale si svolge l’intreccio.

L’autore del rebus si qualifica come Sidereus Nuncius e in questo nome ci sono già alcune delle polarità del romanzo. Da una parte il riferimento è all’omonima opera di Galileo Galilei, scritta a Padova, città che è la vera protagonista del romanzo, così come i precedenti erano ambientati in contesti trevigiani e veneziani. Galileo scrisse il Nuncius nel 1610 da docente universitario padovano e in effetti l’Università è presentissima nel testo di Raffaelli. Un’Università di cui l’autore mette in luce gli aspetti di centro di potere, interconnesso con la politica, la finanza, le consorterie tanto segrete quanto ramificate nelle sedi decisionali.

Sidereus Nuncius è però anche, letteralmente, “messaggero divino”, è la presenza del Destino, che però più che nei precedenti romanzi sembra divertirsi a giocare a dadi. Se la vetrata del romanzo veneziano poteva significare una lettura direttamente teologica del reale, in quest’ultima prova di Raffaelli il Destino sa giocare con le logiche della fisica quantistica (nei dialoghi si cita esplicitamente il paradosso del gatto di Schroedinger) e quindi maschera le carte e ci lascia sempre in sospeso, perché le risposte che secondo la logica aristotelica o la razionalità euclidea possono sembrare le più ovvie e conseguenti, sancendo lo status quo e consacrando la legge del più forte, nell’universo quantistico possono, come in un Magnificat secondo Heisenberg, deporre i potenti dai troni e innalzare gli umili, rovesciando conclusioni che sembravano ovvie.

Detto ciò, ancor più che nelle opere precedenti siamo in presenza di un noir ad orologeria, un testo che conosce a menadito i tempi e le scansioni del romanzo giallo, con un suicido che però forse è un omicidio – o forse no – un detective (il viceispettore Giovanni Zanca, protagonista anche dei precedenti  romanzi) e una costruzione quasi teatrale: un avvicendarsi di atti e di scene in cui personaggi lontanissimi tra loro, dall’allenatore di una squadretta di periferia al presidente di una società finanziaria, dal ricattatore dal cuore buono al giornalista prono ai potenti, scoprono via via legami impensabili. È un giallo che coniuga architettura solida e costante scorrevolezza, per cui si fa fatica a interrompere la lettura senza volerne leggere almeno un altro capitolo.

Raffaelli è anche bravo, nonostante qualche piccola incongruenza che fa di “Delitto al Caffè Pedrocchi” un romanzo meno rifinito del precedente (ma ci sarà tempo per rimediare nelle successive edizioni), a non far diventare artificiosa questa costruzione. Nel testo troviamo squarci (una scena che il viceispettore Zanca osserva in pochi secondi da un treno regionale, o i pensieri di una prostituta alla finestra), che non hanno continuità nel prosieguo dell’opera. Sono episodi che, lungi dal risultare corpi estranei, conferiscono ariosità al romanzo; lo stesso effetto conseguito da digressioni tenere quando non umoristiche, e però di grande verità umana, come l’innamoramento di Charlie per la sua impossibile donna ideale.

Resta da dire della presenza di Padova, un atto di amore dell’autore, trentino di nascita ma che da anni vive in questa città. Non è un luogo letterario. Ai padovani – anche di adozione come il sottoscritto – non sfuggirà la conoscenza puntuale che Raffaelli dimostra di angoli, situazioni, dettagli, per non dire dei personaggi (alcuni soprattutto di seconda fila ispirati a persone reali). Ai non padovani resterà comunque il sapore di una città vera, credibile, magari da scoprire di persona dopo aver letto il romanzo. Così come verissimi sono alcuni personaggi della storia padovana che recitano un ruolo attivo nell’ingranaggio della narrazione, dal rettore e latinista Concetto Marchesi all’eroico francescano, avviato agli altari, padre Placido Cortese.

Atto d’amore per la città, dicevamo. Ma anche per i suoi abitanti. Perché per le tante figure che animano l’azione tra Pedrocchi, palazzo del Bo e basilica del Santo, di primo e di secondo piano, buone e cattive, umili o potenti, lo sguardo dell’autore è improntato alla simpatia, nel segno di una pietas, di una capacità di “sentire l’umano”, che non è negata neppure ai peggiori. Per tutti c’è sempre una possibile via di fuga, anche per personalità ferite e non lineari come il professor Selmin o per l’oscuro Ermes Zen.

Un’ultima nota, già presente nel precedente romanzo ma qui più accentuata, riguarda i giovani, che sono il vero polo positivo del racconto, come per il gruppo di laureandi o ricercatori ai primi passi che circondano il professor Visonà (Raffaelli delinea con finezza le figure dei fidanzati Anna e Francesco), o il giovanissimo calciatore Thomas. C’è da credere che qui emerga, anche se non in modo esplicito, il Raffaelli insegnante e che in alcuni dei ragazzi raccontati con freschezza e simpatia dal romanzo siano tratteggiati alcuni tra i moltissimi studenti da lui incontrati nei tanti istituti in cui ha operato, fino all’attuale, la Scuola di ristorazione di Valdobbiadene.

Alberto Raffaelli, Delitto al Caffè Pedrocchi
Itaca Edizioni, Castel Bolognese
Anno: 2020 – 248 pagine
brossurato con alette
ISBN/id: 9788852606632
Formato: 14×21 cm
Prezzo: 16,00 euro

Il libro si può acquistare su Itacalibri.

Il blog di Alberto Raffaelli.

“Digital Caos”, Nicolò Cappelletti riporta la persona al centro della comunicazione digitale

Lasciamo stare se sia o no un caso. A volte capita che ti trovi a leggere un libro e capisci che era esattamente ciò di cui avevi bisogno in quel momento. A me è capitato con Digital Caos, frutto di un’intensa attività di ricercatore e docente all’Università Iusve (Istituto Universitario Salesiano Venezia) di Nicolò Cappelletti, per i tipi di Dario Flaccovio Editore: un manuale bello tosto, 334 pagine, con la prefazione di Francesco De Nobili.

Dico che ne avevo bisogno perché nella mia attività di responsabile della comunicazione di organizzazioni complesse, la necessità di un quadro di riferimento, di un contesto all’interno del quale prima pensare e poi realizzare le azioni di comunicazione è una necessità primaria. E questo ho trovato nel testo di Cappelletti. Anzitutto per la promessa che si trova all’inizio del volume. In un’epoca come la presente, caratterizzata da overload comunicativo, crisi sempre latente dei brand, necessità per i brand stessi di ridisegnare i propri contenuti, spesso percepiti come irrilevanti o mediocri, Cappelletti parla di una sfida odierna “complessa ma affrontabile”, a partire da tre fattori: tornare alle persone – oltre un’ottica di marketing tradizionale, e quindi non solo intese come consumatori, prosumer, producer o partner – passare dalla quantità alla qualità, attraverso una riflessione radicale sul valore dei contenuti che si producono, e creare connessioni significative «per generare esperienze memorabili».

Per farlo, l’autore in prima istanza ci propone una cavalcata attraverso 25 anni di rivoluzioni digitali, fissando quelle che lui chiama microstorie, ma che rappresentano altrettanti “milestones” della comunicazione digitale odierna: dalla nascita del primo banner online su hotwired.com, ai primordi dello spam con la “Green Card Lottery”, all’esplosione di Twitter come strumento di comunicazione (“There’s a plane in the Hudson”) al caso Snapchat con la storia della sua evoluzione, con le stories “scippate” con profitto da Instagram. Episodi fondamentali ma anche universalmente noti, si dirà: dove sta il valore aggiunto? Sta nelle contestualizzazioni storiche in cui Cappelletti dimostra il suo spessore di storico dell’età digitale, ma soprattutto nei paragrafi “Approfondimento e riflessioni”, nei quali ci regala il senso (o almeno un possibile senso) per l’oggi di episodi che altrimenti rimarrebbero puro storytelling della conquista del West digitale in cui ogni tappa ha immediatamente bruciato e obliterato la precedente.

Orientamento per l’oggi, a questo serve Digital Caos, dove le quattro lettere del sostantivo significano Comprensione, Adattamento, Opportunità e Significato. Ad ognuno di questi termini il docente dello Iusve dedica un capitolo nella seconda parte del volume, tracciando, senza preoccupazione di sistematicità, linee interpretative contrappuntandole con casi di studio. Digital Caos è teoria interpretativa del mondo digitale, non però schema rigido, piuttosto continuo suggerimento di storie e di strumenti per orientarsi nei futuri capitoli di una storia che non è stata ancora scritta.

In questo contesto la stella polare del volume di Cappelletti è la persona, non il concetto di persona, ma proprio la persona reale e le persone reali, che costituiscono il continuo banco di prova della comunicazione digitale. Il paragrafo “Siamo brand, siamo persone” (da pagina 189) e i successivi, in cui l’autore esplicita il suo modello circolare di comunicazione, andrebbero letti da parte di chiunque si accinge ad intraprendere una professione nel mondo della comunicazione digitale, perché il vero rovesciamento di prospettiva, descritto in modo kennediano, non è chiedersi esclusivamente «quali vantaggi la comunicazione digitale possa portare ai nostri brand, alle nostre aziende o al nostro business», ma «cosa noi, come azienda, come ente, come istituzione, con i nostri prodotti o servizi, possiamo fare per le persone attraverso i social media»: affermazioni da cui Cappelletti trae varie conseguenze pratiche, sempre sostanziate da casi di studio.

La conclusione stessa del volume può essere considerata un’applicazione di questo metodo. Cappelletti dà la parola a tre protagonisti dello scenario della digital communication – Andrea Albanese, Mariano Diotto, Paolo Errico – per fargli raccontare come sono usciti a riveder le stelle partendo dalla loro esperienza di caos digitale. Annoto solo un passaggio di Diotto, quando si chiede quale possa essere il punto fermo nella vita di un marketer. «Da giovane pensavo fosse l’intraprendenza; poi quando ho iniziato a lavorare credevo fosse la dedizione; dopo alcuni anni ho pensato fosse l’esperienza; insegnando all’università ho sperimentato come sia lo studio. E ora? Ora ne sono ancora alla ricerca!» E chissà che proprio la ricerca non sia il punto fermo di cui abbiamo tanto bisogno.

 

Nicolò Cappelletti
Digital Caos. Comprendi l’evoluzione digitale, cogline le opportunità e sviluppa strategie di comunicazione rilevanti e significative
Dario Flaccovio Editore
336 pagine
Prima edizione: Novembre 2019
ISBN 9788857909639

Il succo del web marketing, un manuale onesto e affidabile

È strano che gli aggettivi che vengono in mente alla lettura di un manuale di web marketing, che tratta cioè una disciplina recentissima e “moderna” per definizione, siano vecchiotti e forse fuori moda, per non dire proprio vintage. A me è capitato leggendo “Il succo del web marketing” di Alessandro Sportelli e Manuel Faè (Strumenti di business edizioni, 2016, pp. 291, € 24). Leggendolo mi veniva da definirlo un libro onesto, corretto, credibile, addirittura etico.

Non fatevi strane idee. Non ci sono sermoni nel volume dei due ben noti webmarketers. Si parla di business, di come fare (bene) i soldi online: elucubrazioni zero. È un testo anzitutto che dà l’opportunità di tirare un sospiro di sollievo a chi, attirato da mille sirene, comincia a provare un certo mal di mare tra le tante proposte del marketing online. A volte infatti viene il sospetto, e Manuel ed Alessandro nel testo ne discutono ampiamente, che aggiungendo la parola magica marketing si nobiliti d’incanto ogni singola (serissima e utilissima, per carità) branca di questo settore. E così, ricordano gli autori, abbiamo il search Marketing, il video Marketing, il Facebook Marketing, il blog Marketing e via dicendo. Ma al netto di fuffaroli e venditori di nulla, e quindi considerando di avere a che fare solo con persone professionalmente preparate, il vero punto debole della faccenda è che così il web marketing si trasforma in un grande “mercante in fiera” degli strumenti, dove ognuno magnifica le qualità del prodotto che ha sulla propria bancarella. Quale sarà lo strumento – o meglio il mix di strumenti – che fra tutti farà al caso della mia azienda? E soprattutto, come fare a capirlo?

Per rispondere alla domanda i due autori riportano la questione a monte, ricordando che gli strumenti sono come gli ingredienti di una pietanza e che con gli stessi ingredienti lo chef tristellato Massimiliano Alajmo e Gigetto il pizzaiolo realizzano ricette molto diverse. «Il vero Marketing è una scienza, non un’accozzaglia di strumenti», ripetono come un mantra Ale&Manuel. La vicenda quindi si affronta a livello non solo di strumenti ma di metodo, metodo che nel caso de “Il succo del web marketing” è il Connection Funnel®, un procedimento che non vogliamo qui anticipare ma che sposta il focus dalle procedure di vendita a quelle di acquisto o meglio modella le fasi della vendita online (e non solo online) sulle parallele fasi di acquisto, quelle cioè che portano un potenziale cliente a scoprire il vostro prodotto, a prendere informazioni, acquistarlo e poi – sperabilmente – esserne soddisfatto.

Le pagine in cui si racconta come i due autori sono giunti ad elaborare il metodo sono tra le più palpitanti del testo, uno storytelling di anni di professionalità contrassegnati da una maniacale tensione a misurare i risultati dal proprio lavoro. I due raccontano come sono passati dall’entusiasmo dei neofiti alla scoperta del meraviglioso mondo del web, allo scorno dei primi risultati che non tornavano, a successive correzioni di rotta o addirittura a veri e propri rovesciamenti di prospettiva. Un percorso che li ha portati cammin facendo a evidenziare i punti deboli di troppi personaggi che popolano la piazza webmarkettara: a volte veri e propri truffatori, a volte invece validi e preparati professionisti che però non sanno contestualizzare la propria proposta nell’ambito delle reali esigenze del cliente. Spassose in questo quadro le pagine dedicate a “MiocuGGino”, una tipologia di webmarketer paragonata a coloro che avendo casualmente trovato un metodo per risolvere il proprio mal di schiena ne divengono apostoli a prescindere, come se fosse un rimedio universale, pur senza avere la minima cognizione di ortopedia o fisiatria.

Leggendo “Il succo del web marketing” sentirete invece parlare fino allo sfinimento di metodo, di basi, di approccio scientifico, di fondamenti. Vi verranno offerti degli strumenti, suggeriti casi aziendali, esemplificate applicazioni in settori particolari come il turismo. Per questo il testo di Sportelli e Faè è un utile termine di paragone per chiunque – quand’anche usasse altri metodi, com’è legittimo – si occupi di questo settore. Il libro naturalmente mostra anche qualche piccolo difetto, ad esempio varie ripetizioni, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di ripetizioni volute per sottolineare la natura didattica del testo. Anche il correttore di bozze in qualche caso sembra essersi distratto…

Piccolezze, comunque. Personalmente, da appassionato che è entrato nel mondo del web marketing da una porta di accesso non proprio comune, il giornalismo, dopo la prima lettura ho sentito la necessità di rileggere il volume e, se non di ripensare, quanto meno di correggere in più fasi alcuni piani di comunicazione da me elaborati. Buon segno, che ne dite?

Concerto Armonie Giottesche Padova 10 giugno 2016

Armonie Giottesche, un percorso dello sguardo e del cuore

Penso di aver partecipato a un sufficiente numero di concerti in vita mia per percepire immediatamente la temperatura del pubblico. Intendo quel feeling, quella sintonia, nei casi più rari e fortunati quell’osmosi che si crea tra esecutore e platea e che non sempre è proporzionale alle doti tecniche o interpretative di chi è allo strumento.

Venerdì 10 giugno prima del concerto (ma forse sarebbe meglio parlare di evento multimediale, o di evento simpliciter) “Armonie Giottesche” con Marcelo Cesena, la curiosità era palpabile. Le premesse c’erano tutte: un pianista brasiliano che visita la cappella degli Scrovegni, rimane incantato dagli affreschi di Giotto e decide sull’istante di dedicare un’opera a questo capolavoro. Il pubblico ha quasi riempito gli oltre cinquecento posti dell’Auditorium Pollini di Padova. L’operazione, proposta dall’Associazione culturale Antonio Rosmini, oltretutto era ad alto rischio. Giotto è sacro. A Padova, poi. Pensare a una traccia musicale che in qualche modo spieghi o anche solo commenti gli affreschi è impresa temeraria. Figuriamoci un’opera che in dodici scene ne ripercorre passo passo la narrazione, dalle storie di Giuseppe (La promessa) al Giudizio universale (L’ultimo giorno).

Concerto Armonie Giottesche Padova 10 giugno 2016
Cesena e il pubblico dell’Auditorium Pollini – foto Antonio Naia

Ebbene, già dal primo brano la sintonizzazione è stata immediata. Una chimica che a mia memoria ha pochi riscontri. Marcelo si impone come strumentista, per disponibilità tecnica e nobiltà del timbro. Il suo linguaggio compositivo non deve ingannare. Non siamo di fronte a un Allevi made in Brazil. L’impatto delle armonie giottesche è certo dovuto a un linguaggio di immediata presa, ma non devono sfuggire la complessità armonica, la trama dei rimandi tematici interna ai brani e tra brani diversi, il giocare in contropiede rispetto alle aspettative: una Resurrezione così sommessa è da considerarsi quasi più pierfranceschiana che giottesca.

Ciascuna delle dodici scene è stata introdotta da brevi, dense citazioni ben enunciate dal giovanissimo Paolo Malvisi. Da Calderón de la Barca a Martin Luther King, dal Cantico dei Cantici a Ovidio a Nazim Hikmet fino al Dies Irae, illuminazioni in controcanto e quasi in chiaroscuro rispetto agli affreschi e alle composizioni. Pienamente integrati nell’evento, non solo con funzione di commento estetico, i “quadri” giotteschi disegnati da Massimo Toniato con la guida del direttore artistico Filippo Stoppa e la consulenza dei giovani professionisti di Studio 7am. Attenzione, non siamo di fronte alla trovata del Giotto in 3D, accorgimento peraltro usato con parsimonia. Quello in cui Toniato ci accompagna è piuttosto un percorso dello sguardo, che anche nella bidimensionalità dell’affresco va a distinguere i piani, peraltro dettati con tutta evidenza da Giotto stesso, si concentra sui particolari, ritorna alla visione d’insieme, individua man mano tutto il campionario dell’umano che con il pittore fiorentino irrompe con naturale prepotenza nella storia dell’arte occidentale.

Concerto Armonie Giottesche Padova 10 giugno 2016
Musica, testi e immagini ben integrati al Pollini – foto Antonio Naia

Un percorso dello sguardo, appunto. E del cuore. I brani declamati da Malvisi portano alle armonie di Cesena. Il pianoforte ci accompagna, senza coprire o commentare, allo sguardo tridimensionale del videomaker. La grafica ci permette di scoprire con occhi nuovi le scene di Giotto, le interazioni degli occhi, si tratti di Maria sotto la croce o delle madri disperate nella Strage degli innocenti. E le scene di Giotto con assoluta, vincente naturalezza ci portano allo sguardo di Gesù e dei suoi amici. Come nel fenomenale brano di Luigi Giussani che introduce Crocefissione e morte: «Se voi vi immaginate di essere sotto la croce e di guardar su al volto di Cristo che sta per morire, se guardate ai suoi occhi che vi fissassero, che per un istante vi fissassero, e voi li guardate per quell’istante, non ve li potete più togliere; per tutta la vita poi, guardando il sole, guardando il cielo, guardando il mare, guardando le stelle, guardando le mura di casa vostra, la spada di quello sguardo non si dimentica più. Non come un terrore che avanzi, ma come una strana bontà che vince».

E qui, a questo punto, esecutori, artisti, professionisti, pubblico, verrebbe da dire anche sponsor (su tutti la lungimirante Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo) vengono a convergere sulle conclusive quanto programmatiche parole di saluto di Cesena: «L’arte di Giotto è completa in sé, l’ultima idea che mi passa per la mente è aver voluto spiegare o commentare questi affreschi». Accompagnare, piuttosto. Prendere per mano lo spettatore aiutandolo, come ha ricordato il presidente Rosmini Andrea Pin, a scoprire un capolavoro. E soprattutto, per chi crede di conoscerlo già, a riscoprirlo con occhi nuovi.

 

Il concerto Armonie Giottesche è già stato proposto per un pubblico ristretto di sole autorità lunedì 4 aprile nella Cappella degli Scrovegni. Una successiva data è prevista per venerdì 17 giugno alle 21.00 in piazzetta Conciapelli a Padova, in collaborazione con Valentini Poliambulatorio Centro Medico: in quell’occasione Marcelo Cesena non ripresenterà il concerto integrale ma eseguirà vari brani di “Armonie Giottesche” in dialogo con il pubblico. Sabato 25 giugno, grazie a Officina Giotto, l’Associazione Rosmini proporrà Armonie Giottesche in un evento a porte chiuse riservato ai detenuti della casa di reclusione di Padova.

“Il maestro vetraio”, un giallo appassionante (ma non solo)

(volume acquistabile sul )

«Venezia era apparsa all’improvviso». Questo l’incipit de “Il maestro vetraio”, il romanzo che Alberto Raffaelli propone, per le edizioni Itaca, dopo il successo, favorito anche da concomitanti fatti di cronaca, de “L’Osteria senza oste”.

E Venezia non è solo uno sfondo nel romanzo di Raffaelli. Non è un luogo letterario. È un luogo vero, vissuto in prima persona dall’autore. I riferimenti topografici sono sempre molto puntuali. Raffaelli Venezia l’ha vissuta, l’ha amata e nel volume questo amore diventa conoscenza profonda, dettagliata. «Venezia è come una vera da pozzo, una di quelle che sorgono in mezzo ai campielli, su cui possiamo sporgerci per ficcare lo sguardo nel buio e cercare là in fondo… Perché non si può amare davvero senza cercare di capire».

Venezia però è anche Marghera, una periferia violentata dagli insediamenti industriali che poi hanno lasciato lo spazio ad abbandono e desolazione, oltre che a traffici di merci e denaro quando non di persone. Ma proprio in questa periferia devastata sceglie di operare – anzi sono i fatti che lo conducono, una commessa del Comune di Venezia – Benedetto Zaccaria, figlio di maestro vetraio e vetraio lui stesso, che lavora per recuperare la chiesa diroccata della Madonna del mare senza ricostruire la muratura, ma installandovi attorno una vetrata in dodici quadri.

È proprio la figura di Benedetto e i quadri della sua vetrata a dare il ritmo e indicare l’orizzonte ultimo del romanzo. Perché se con “Il maestro vetraio” le regole del giallo sono rispettate fino in fondo – del giallo ha la struttura, il ritmo serrato, la consequenzialità delle situazioni – giallo tuttavia non si può definire. La narrazione si configura piuttosto come un grande affresco, scandito dalla descrizione dei singoli quadri della vetrata. Un Giudizio Universale (evidente e presente nel libro il riferimento ai mosaici di Torcello) dei nostri tempi, in cui entrano storie estreme, crude, scene di ordinari inferni generati dagli idoli dell’usura, della lussuria e del potere, ma anche scene – potentissima e dal sapore dostoevskiano l’ultima dei mendicanti – in cui emerge la forza del perdono e della misericordia. Raffaelli racconta la corruzione, lo sfruttamento, la falsità dei potenti, le trame dell’autorità civile e la compiacenza delle sfere ecclesiastiche e nel contempo lascia agli “ultimi” il compito di dire un’ultima parola su tutto ciò. Che non è una parola di condanna.

Se questo è l’intento e l’impianto del romanzo, dobbiamo aggiungere che l’autore poi ci regala una serie di personaggi che sa gestire con disinvoltura, sempre freschi e credibili. Benedetto, anzitutto, figura cardine del romanzo, l’investigatore Giovanni Zanca (già presente ne “L’Osteria senza oste”), l’ambizioso vicesindaco Marco Scarpa, il misterioso “Barba”, gestore di un bar di Marghera e forse di molti altri affari non sempre puliti, ma anche gli indimenticabili Nick, il ragazzino che ha adottato una gallina, Orges, il ladro di timbri (in una delle pagine più irresistibili dell’opera), o lo stralunato Davide con la sua insolita forma di disabilità. Personaggi coerenti (con qualche riconoscibile cenno a persone reali), ben orchestrati, per una vicenda che si legge d’un fiato e che mescola i registri della cronaca e della narrazione di ampio respiro, dell’ironia e del dramma, tenendo sul filo il lettore fino alla poetica, lieve conclusione.

Eccellenze in digitale, i peccati veniali di Sua Maestà Google

Ottantanove video online per 23 badge, uno per argomento affrontato. Ho voluto provare a percorrere, video dopo video, il percorso di formazione Made in Italy – Eccellenze in digitale (nell’immagine un’infografica del corso) promosso per il nostro paese da Google all’interno di quello che la stessa casa di Mountain View definisce “un portale per lo sviluppo di competenze nell’ambito del marketing digitale”.

Bene, dopo aver condiviso su tutti i social possibili l’attestato rilasciatomi da Sua Maestà Il Motore Di Ricerca, eccovi una recensione su questo corso online gratuito. Sì, perché comunque tutti i contenuti proposti nel percorso sono a disposizione – caso praticamente unico – di chiunque. E che genere di contenuti? Google non ci fa mancare niente. Nei 23 badge siamo accompagnati passo dopo passo a costruire la nostra presenza in rete, usare in modo smaliziato i motori di ricerca, approfondire i concetti basilari di SEO e SEM, familiarizzare con Google Analytics e altri strumenti di analisi, ma anche a sviluppare iniziative di marketing locali, scoprire le opportunità del mobile e ancora usare la pubblicità display, darci una strategia video, creare un negozio online…

La panoramica – non c’è dubbio – è completa, gli argomenti sono proposti con un linguaggio piano ma non banale da speaker professionali e quello che si porta a casa è qualcosa in più di una semplice panoramica. Certo, dopo l’ottantanovesimo video non potrete iniziare a pianificare campagne AdWords o progettare un e-commerce, ma avrete tutti gli strumenti per approfondire consapevolmente l’argomento di vostro interesse.

Condivisibile anche la scelta di posizionarsi nell’ottica di piccole attività imprenditoriali. Gli esempi riguardano tutti le classiche pmi italiane o imprese commerciali di ridotte dimensioni. Si parla di parrucchieri, titolari di negozi di dischi vintage, venditori di mobili antichi. Chiaro il messaggio. Il web marketing non è roba da gente danarosa, con pochi soldi e tanto cervello chiunque può potenziare digitalmente anche un’attività che ha come raggio il proprio quartiere, salvo fare il grande salto e pensare di proporre – è il contenuto di una delle ultime lezioni – i propri dischi vintage anche in altri paesi europei.

Sua Maestà, come conviene ai sovrani che vogliono darsi almeno una patina di democraticità, appare magnanimo con i concorrenti. Piattaforme e software di altre case, da Bing (e relativo Ads) a Criteo, da Facebook e social vari a Hootsuite o Buffer.com, vengono citati più volte con correttezza. Onore alle larghe vedute di Google, quindi.

E i difetti? Naturalmente qualche peccatuccio (veniale) c’è, anche se non tale da inficiare la bontà complessiva della proposta. Praticamente in ogni lezione sono infatti citati e visualizzati i casi di aziende italiane che grazie al web marketing hanno fatto un salto di qualità. Peccato che le aziende citate alla fine siano solo tre, con relativi testimonial: Filippo titolare di Berto salotti, Giorgio di Lux Made In, azienda che realizza gioielli, orologi e accessori, e il produttore di panettoni Dario Loison. Non tre mostri di simpatia detto tra noi, soprattutto l’ultimo, ma qui devo confessare che mi trovo in conflitto di interessi, lavorando per la concorrenza (cioè i meravigliosi panettoni artigianali Giotto, provateli!).

Sempre le stesse aziende, e passi, ma anche – e questo è meno perdonabile – sempre le stesse inquadrature. Giorgio di Lux Made In che si mette in posa di fronte a un’antica fontana di Roma ormai ci esce dagli occhi e possiamo dire di aver familiarizzato a sufficienza con lo staff dirigenziale di Berto Salotti, ma tant’è. Il sovrano sarà magnanimo, ma pure un po’ tirchio, qualche ripresa in più ce la poteva regalare.

Tutto però in questo percorso è ispirato a un’atmosfera minimal, compreso l’arredamento dell’ambiente in cui parlano gli speaker, in puro stile Ikea, e il disastroso abbigliamento dei lettori, con quelle camice e magliette dai colori uniformi e improbabili. Forse per questioni di family feeling, adeguandoli anche visivamente a parallele edizioni in altre lingue e destinate ad altri paesi? Di certo non si respira un’aria Made in Italy con la grafica, peraltro ottima, questa sì allegra e intuitiva, ma che supponiamo essere la medesima per le varie edizioni estere del corso, visto che quando si parla di Milano, Napoli e Venezia balzano fuori icone generiche e per nulla pertinenti.

Anche le domande dei quiz, a volerla dire tutta, a volte sono un po’ banali oppure opinabili. Di fronte alla domanda “Vero o falso: è impossibile prevedere ciò che gli acquirenti online potrebbero voler acquistare” si intuisce che si parla di retargeting, e che quindi una certa possibilità di azzeccare le previsioni c’è, ma in senso assoluto la certezza delle scelte del cliente (grazie a Dio) nessuno strumento te la dà. Per ora.

Piccoli difetti di un corso consigliabile da tutti i punti di vista, si diceva. E se gli antichi amavano ricordare che ogni tanto anche Omero sonnecchia, volete che non permettiamo a Sua Maestà di farsi una pennichella ogni tanto?

#bewizard 2016, la parola al #bigboss

Quale la novità tematica dell’edizione 2016 del Be-Wizard? Ce la racconta in estrema sintesi Paolo Zanzottera, digital evangelist che da sempre con il suo intervento dà il “la” alla manifestazione.