Come il precedente “Il maestro vetraio”, anche “Delitto al Caffè Pedrocchi”, terza fatica letteraria di Alberto Raffaelli (il libro d’esordio era stato “L’Osteria senza Oste”) fa ruotare la narrazione intorno a un suo correlato oggettivo. Che se nel precedente romanzo era una vetrata, nelle cui trasparenze lèggere il senso definitivo degli eventi quotidiani, anche quelli più periferici quando non squallidi, in “Delitto al Caffè Pedrocchi” è un gioco, un rebus, inviato da un mittente sconosciuto a tre persone molto diverse tra loro, e che emerge man mano come perno intorno al quale si svolge l’intreccio.
L’autore del rebus si qualifica come Sidereus Nuncius e in questo nome ci sono già alcune delle polarità del romanzo. Da una parte il riferimento è all’omonima opera di Galileo Galilei, scritta a Padova, città che è la vera protagonista del romanzo, così come i precedenti erano ambientati in contesti trevigiani e veneziani. Galileo scrisse il Nuncius nel 1610 da docente universitario padovano e in effetti l’Università è presentissima nel testo di Raffaelli. Un’Università di cui l’autore mette in luce gli aspetti di centro di potere, interconnesso con la politica, la finanza, le consorterie tanto segrete quanto ramificate nelle sedi decisionali.
Sidereus Nuncius è però anche, letteralmente, “messaggero divino”, è la presenza del Destino, che però più che nei precedenti romanzi sembra divertirsi a giocare a dadi. Se la vetrata del romanzo veneziano poteva significare una lettura direttamente teologica del reale, in quest’ultima prova di Raffaelli il Destino sa giocare con le logiche della fisica quantistica (nei dialoghi si cita esplicitamente il paradosso del gatto di Schroedinger) e quindi maschera le carte e ci lascia sempre in sospeso, perché le risposte che secondo la logica aristotelica o la razionalità euclidea possono sembrare le più ovvie e conseguenti, sancendo lo status quo e consacrando la legge del più forte, nell’universo quantistico possono, come in un Magnificat secondo Heisenberg, deporre i potenti dai troni e innalzare gli umili, rovesciando conclusioni che sembravano ovvie.
Detto ciò, ancor più che nelle opere precedenti siamo in presenza di un noir ad orologeria, un testo che conosce a menadito i tempi e le scansioni del romanzo giallo, con un suicido che però forse è un omicidio – o forse no – un detective (il viceispettore Giovanni Zanca, protagonista anche dei precedenti romanzi) e una costruzione quasi teatrale: un avvicendarsi di atti e di scene in cui personaggi lontanissimi tra loro, dall’allenatore di una squadretta di periferia al presidente di una società finanziaria, dal ricattatore dal cuore buono al giornalista prono ai potenti, scoprono via via legami impensabili. È un giallo che coniuga architettura solida e costante scorrevolezza, per cui si fa fatica a interrompere la lettura senza volerne leggere almeno un altro capitolo.
Raffaelli è anche bravo, nonostante qualche piccola incongruenza che fa di “Delitto al Caffè Pedrocchi” un romanzo meno rifinito del precedente (ma ci sarà tempo per rimediare nelle successive edizioni), a non far diventare artificiosa questa costruzione. Nel testo troviamo squarci (una scena che il viceispettore Zanca osserva in pochi secondi da un treno regionale, o i pensieri di una prostituta alla finestra), che non hanno continuità nel prosieguo dell’opera. Sono episodi che, lungi dal risultare corpi estranei, conferiscono ariosità al romanzo; lo stesso effetto conseguito da digressioni tenere quando non umoristiche, e però di grande verità umana, come l’innamoramento di Charlie per la sua impossibile donna ideale.
Resta da dire della presenza di Padova, un atto di amore dell’autore, trentino di nascita ma che da anni vive in questa città. Non è un luogo letterario. Ai padovani – anche di adozione come il sottoscritto – non sfuggirà la conoscenza puntuale che Raffaelli dimostra di angoli, situazioni, dettagli, per non dire dei personaggi (alcuni soprattutto di seconda fila ispirati a persone reali). Ai non padovani resterà comunque il sapore di una città vera, credibile, magari da scoprire di persona dopo aver letto il romanzo. Così come verissimi sono alcuni personaggi della storia padovana che recitano un ruolo attivo nell’ingranaggio della narrazione, dal rettore e latinista Concetto Marchesi all’eroico francescano, avviato agli altari, padre Placido Cortese.
Atto d’amore per la città, dicevamo. Ma anche per i suoi abitanti. Perché per le tante figure che animano l’azione tra Pedrocchi, palazzo del Bo e basilica del Santo, di primo e di secondo piano, buone e cattive, umili o potenti, lo sguardo dell’autore è improntato alla simpatia, nel segno di una pietas, di una capacità di “sentire l’umano”, che non è negata neppure ai peggiori. Per tutti c’è sempre una possibile via di fuga, anche per personalità ferite e non lineari come il professor Selmin o per l’oscuro Ermes Zen.
Un’ultima nota, già presente nel precedente romanzo ma qui più accentuata, riguarda i giovani, che sono il vero polo positivo del racconto, come per il gruppo di laureandi o ricercatori ai primi passi che circondano il professor Visonà (Raffaelli delinea con finezza le figure dei fidanzati Anna e Francesco), o il giovanissimo calciatore Thomas. C’è da credere che qui emerga, anche se non in modo esplicito, il Raffaelli insegnante e che in alcuni dei ragazzi raccontati con freschezza e simpatia dal romanzo siano tratteggiati alcuni tra i moltissimi studenti da lui incontrati nei tanti istituti in cui ha operato, fino all’attuale, la Scuola di ristorazione di Valdobbiadene.
Alberto Raffaelli, Delitto al Caffè Pedrocchi
Itaca Edizioni, Castel Bolognese
Anno: 2020 – 248 pagine
brossurato con alette
ISBN/id: 9788852606632
Formato: 14×21 cm
Prezzo: 16,00 euro
Il libro si può acquistare su Itacalibri.